La morte di A. Pirella
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- Published on Monday, 30 October 2017 21:50
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La morte del Prof. Agostino Pirella
Grave lutto per Psichiatria Democratica
Con lui scompare un protagonista della rivoluzione psichiatrica italiana, un fine intellettuale, un punto di riferimento solido e costante.
Le condoglianze del movimento al figlio Martino.
" Psichiatria Democratica piange la morte del suo Presidente onorario, Prof. Agostino Pirella, protagonista della rivoluzione psichiatrica italiana,fine intellettuale, sempre impegnato nelle battaglie democratiche e punto di riferimento costante per il movimento. Averlo avuto come Maestro e compagno al nostro fianco, ci impegna a continuare la lotta contro tutte le forme di esclusione e di emarginazione".
Rassegna Stampa
Ricordi e testimonianze di: Stefano Dei, Rocco Canosa, Guido Pullia, Ezio Cristina, Antonello D'Elia, Magistratura Democratica, Livio Pepino, Tina Chiarini, Alessandro Ricci, Emilio Lupo, Luciano Sorrentino, Salvatore Di Fede, Monica Bettoni, Paolo Serra, Cesare Bondioli (v. rass. stampa)
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Agostino Pirella: contributo per un ritratto.(video di Stefano Dei)
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Bruno Benigni, Agostino Pirella e Paolo Tranchina nell' ex OP di Arezzo in occasione dell'inaugurazione del monumento alla vittime delle violenze nei manicomi.
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ricordi...
Tutti i compagni ricordano Agostino come uomo di scienza, di cultura, di prassi antiistuzionale...
1988: Torneo di calcio "Brancaleone",la prima volta che si organizzava tra servizi del Piemonte. In un allenamento invito Agostino a vederci. Lui dice che vorrebbe giocare, almeno 10 minuti mi dice..Uno spettacolo: dribbling strettissimi, velocità, visione di gioco, un paziente mi dice, in dialetto "ma chi a l'è chiel li'? Pelè?" Poi mi racconta che aveva giocato nelle giovanili dell'Inter e che avrebbe potuto diventare professionista ma la Psichiatria...
1983: cena in cascina, avevamo acquistato un ping-pong, organizziamo un mini torneo, non avevo mai visto giocare Agustin (cosi' lo chiamavamo noi piemontesi).Non era solo bravo e veloce e furbo...aveva una marcia in piu' di tutti noi,che comunque non eravamo delle schiappe; si creo' una situazione magica, infantile forse, un vociare, complimenti reciproci,errori con disperazione susseguente...indimenticabili momenti
grazie Agustin
Ezio Cristina
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Conosco per esperienza diretta e recente la morte di un padre vecchio e malato. So cosa voglia dire gestirne l’eredità materiale e morale: è un processo lento e lungo che non si esaurisce nel tempo condiviso e nella dimensione sociale del lutto. Mi sento per questo autorizzato a dire della morte di Agostino Pirella partendo da una posizione personale, soggettiva e non da una memoria pubblica perché il mio rapporto con lui non è stato diretto né tantomeno reciproco, non ho ricordi affettuosi da condividere né episodi significativi da riportare. Benché abbia lavorato a Torino a lungo l’ho incontrato poche volte. La prima fu quando, assunto da pochi giorni in ospedale a Collegno mentre lui aveva un incarico in Regione, venne in visita a osservare, immagino, l’esito di un processo di chiusura da lui avviato e ancora in corso. Mi è ben presente il senso di riverente soggezione nei suoi confronti, una percezione di severità che contrastava con lo spirito più leggero vissuto in prima persona a Napoli, con Sergio Piro, nel corso del processo di apertura del manicomio. E poi a Vico Equense, a un convegno di Psichiatria Democratica a cui lui partecipava in un ruolo da padre nobile, distaccato ormai dalla militanza diretta ma aggiornato e coinvolto come se ancora la vivesse. Per questo la sua figura esercitava su di me un fascino, amplificato dalla distanza oggettiva che mi separava da lui in parte mitigata dai suoi scritti che ben conoscevo e che mi richiamavano un rigore che non sempre ritrovavo in altri compagni: “Cosa direbbe di questo Pirella?”, mi scoprivo a pensare.
Ora che rivesto un ruolo dirigente in quel movimento che lui aveva contribuito a fondare ed aveva anche presieduto mi si pone un problema rilevante che ha a che fare con la continuità e la discontinuità rispetto al passato. L’eredità non è un lascito privo della sofferenza per la perdita di chi la trasmette. E neppure un passaggio garantito tra chi precede e chi succede. Chi riceve è solo, mancante e solamente da qui può partire per accedere al passato, per farlo suo e trasformarlo in modo vitale. Cosa possiamo fare noi di quello che hanno lasciato Pirella e prima di, lui Basaglia? I tempi sono cambiati, ma non troppo, anzi: sembra di scivolare inesorabilmente nella distopia prefigurata da Basaglia stesso quando diceva che forse i manicomi si sarebbero riaperti, magari ancor più chiusi di un tempo. Altre sono le forme, altro il vestito ideologico della psichiatria che ha nutrito il suo sostanzialismo ingenuo con un uso malinteso delle neuroscienze e soprattutto con la logica del razionalismo aziendale. Eppure in questi tempi di stanchezza e apparente disaffezione, è necessario ricordare che “Si può fare”, che se si è fatto una volta, si potrà ancora rompere il cerchio dell’oppressione, del potere sui soggetti da parte di una disciplina che, senza rinunciare alla sua sostanziale violenza, ne propone versioni patinate e ‘razionali’. Cambiati sono gli scenari, cambiati gli interlocutori, modificati anche i mezzi per esercitare quel controllo sull’altro e l’alterità che un tempo era facilitato dai luoghi di segregazione manicomiale. Ma la sostanza, la natura stessa della lotta, è immutata perché immutata è la sostanza dei dispositivi segreganti e di negazione delle soggettività. Ed è solo saper mettere insieme passato e presente che potrà permettere a tutti di noi di Psichiatria Democratica del terzo millennio di guardare al futuro. Le parole e la presenza di Agostino Pirella ci aiuteranno in quest’ultima, necessaria sfida.
Antonello D’Elia, Presidente di Psichiatria Democratica
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Era da tempo che non incontravo Agostino Pirella. Prima la mia assenza da Torino, poi le sue condizioni di salute ci hanno consentito solo un paio di incontri di fretta a margine di qualche iniziativa. Ma dell’ultima chiacchiera con lui ho un ricordo intenso, nonostante il tempo trascorso (non so dire quanto, perché non ricordo mai le date). Gli avevo telefonato per chiedergli se aveva una copia in più de L’istituzione negata nell’edizione originale di Einaudi del 1968 (la mia l’avevo prestata all’immancabile qualcuno che l’aveva trovata troppo bella per restituirmela...). «Sì, ce l’ho! Passa a prenderla». Così andai a casa sua – allora abitava, se ben ricordo, nella zona di Santa Rita – e insieme a una copia del libro con un dedica affettuosa mi regalò una chiacchiera che non ho dimenticato. Parlammo di molte cose, di ospedali psichiatrici giudiziari (allora ero ancora magistrato) e di pericolosità, della sua esperienza alla guida dei servizi psichiatrici piemontesi conclusa prematuramente per l’ottusità burocratica di un assessore socialista e di molto altro ancora. Ma, soprattutto, parlammo di molti sogni irrealizzati, nella giustizia come nella psichiatria, e delle esperienze parallele di Psichiatria democratica e di Magistratura democratica. Un po’ scottati dall’esperienza ma più motivati che mai, ricordando un passaggio di Franco Basaglia (tratto dalle Conferenze brasiliane): «La cosa importante è che abbiamo dimostrato che l'impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent'anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma ad ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Non credo che il fatto che un'azione riesca a generalizzarsi voglia dire che si è vinto. Il punto importante è un altro, è che ora si sa cosa si può fare». Anche la nuova copia dell’Istituzione negata non ce l’ho più (e questa volta la so in buone mani: quelle di mio figlio). Ma quella chiacchiera e le parole di Basaglia che allora commentammo sono state negli anni la nostra stella polare. Per me – grazie anche ad Agostino – lo sono ancora.
Livio Pepino
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Un ricordo di Agostino Pirella
Un destino cattivo ha voluto che per troppi anni non potessimo più sentire le parole di Agostino Pirella, costretto al silenzio dalla malattia, proprio lui che per tutta la vita non aveva mai risparmiato sé stesso nel prender posizione nelle complesse vicende della psichiatria e della politica non solo del nostro paese. Chissà cosa avrebbe detto del progressivo degradarsi di questo nostro mondo, dove da tempo sono rinati gli odi di razza e di religione, dove l’egoismo e l’indifferenza sembrano essere la cifra dei rapporti umani e sociali. Come tutti i veri maestri Agostino aveva il dono di cogliere sempre l’essenziale - una volta si diceva la contraddizione principale - sia nel campo nostro della salute mentale sia più in generale tutte le volte che erano in questione la giustizia sociale, la dignità e la libertà delle persone. I suoi interventi potevano a volte apparire duri, i suoi giudizi taglienti, aiutavano però tutti noi a non perdere la lucidità della analisi nei momenti più confusi e difficili. Io ho conosciuto Agostino, quando giovane medico, ho iniziato a lavorare all’Ospedale Psichiatrico di Arezzo nel 1976. L’esperienza era iniziata già da qualche anno, ma era ancora nella sua pienezza di progetti e nella densità delle pratiche e per me fu l’occasione di una completa trasformazione, sul piano professionale e umano.Queste storie sono state già raccontate, ma, come capita a tutti noi, ci sono ricordi del nostro passato che rimangono lì sospesi e che spontaneamente spiccano fuori quando ce n’è l’occasione. Credo fosse la mia prima mattinata di lavoro. Le giornate iniziavano sempre con una riunione numerosa nella palazzina della direzione. Alla presenza di Agostino, tutti i medici, le assistenti sociali e uno o due infermieri per reparto, per discutere della giornata precedente e programmare il lavoro del giorno. Prima della riunione mi chiama Agostino per dirmi che l’orario della riunione era piuttosto preciso: alle 8.45. Naturalmente mi dice anche che dopo l’inizio della riunione la porta sarebbe stata chiusa per i ritardatari. Associai questa severità a una certa idea di militanza che era di quegli anni, ma, entrato pian piano nei meccanismi del lavoro antiistituzionale, compresi che essa faceva parte di quei principi non scritti ma solidamente alla base di quel sistema di democrazia partecipata (dai pazienti soprattutto) “presa sul serio”, che era il vero motore della trasformazione del manicomio. Così tutte le riunioni, nei reparti con i degenti, nella direzione, nella assemblea generale dei pazienti, erano momenti di viva partecipazione, in cui il rispetto della regola non era un aspetto secondario, essendo invece tutt’uno con la sostanza, cioè con il fatto che lì la parola di tutti, ma proprio di tutti, dal più regredito dei pazienti al direttore, aveva lo stesso valore. L’impegno, la promessa di un progetto comune con i pazienti si nutrivano di utopia concreta ma con gli strumenti della migliore cultura repubblicana. Credo che Agostino abbia sempre coltivato entrambi questi aspetti apparentemente contraddittori. La sua cultura mantenne sempre un forte legame con un umanesimo di stampo marxista,e credo vedesse in questo progetto comune trasformazioni locali che tuttavia contenevano in qualche modo anche l’anticipazione di forme più generali di “democratizzazione della vita quotidiana”, da intendersi sia come mezzo di “decifrazione collettiva della realtà” (potremmo anche dire “un lavoro epistemologico collettivo”), sia come un affacciarsi utopico sulla attenuazione e sul superamento del conflitto sociale. Su queste idee è cresciuta l’esperienza di Arezzo di superamento del manicomio, con le sue specificità. Soprattutto per la sua capacità di proiettare da subito all’esterno del manicomio le istanze di liberazione che lì stavano maturando. Non solo un costante (e spesso duro) confronto con la città e il territorio, ma un lavoro di lenta negoziazione con la politica le amministrazioni locali , che Pirella considerava il terreno naturale di una battaglia che doveva coinvolgere tutti. Questa lezione Agostino la portò anche dentro Psichiatria Democratica, di cui fu per molti anni Presidente, riuscendo nel compito difficile di mantenere l’associazione fuori dalle tentazioni dello specialismo e sempre in rapporto con istanze e movimenti di tutela democratica, giustizia sociale, e progresso civile. Non so se siamo sempre riusciti a mantenere la sua tenacia e radicalità, personalmente sarò sempre grato ad Agostino per la generosità con cui ha voluto essermi maestro di vita e di lavoro. Grazie ancora.
"...oltre le logiche violente dell’abbandono e dell’espulsione, la Salute Mentale significa riappropriazione di relazioni significative e di potere sociale.”
Nei giorni scorsi sui quotidiani, come sul sito di Psichiatria Democratica - appresa la assai triste notizia della scomparsa del Prof. Agostino Pirella - sono ritornati, spesso, i termini “Maestro” “rivoluzione psichiatrica” “lotta all’emarginazione”, a significare, verosimilmente, un pezzo del percorso fatto con il nostro Presidente onorario. Un pezzo del tutto. A ripercorrere la grande storia della lotta dentro il manicomio di Gorizia e poi l’epopea di Arezzo ( il Comune, nel 1998, gli conferì la cittadinanza onoraria)e la promulgazione della legge di riforma psichiatrica del 1978, che chiudeva i manicomi in Italia, unico esempio in Europa e oltre Oceano. Una porta sbattuta piu’che chiusa burocraticamente, perché frutto della battaglia di tanti (medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, operatori sociale) cosiddetta società civile e politica illuminata.
Ma per Agostino questo filo rosso era stato e restava la sua direzione/militanza in Psichiatria Democratica che aveva contribuito a fondare nel 1973. Associazione che, contemporaneamente, era sviluppo teorico e pratica della rivoluzione psichiatrica. Un rincorrersi - senza sosta che ciascuno di noi, nei periodici e intensi incontri di Psichiatria Democratica come nei Convegni e seminari nazionali ed internazionali - di rinnovamento scientifico e culturale che si poteva sviluppare solo e, parallelamente, a buone pratiche di Salute Mentale territoriale. Un protagonismo autentico degli utenti, che si riappropriano della loro vita e dei loro spazi, una liberazione doppia: dal bisogno economico e dalla cosiddetta ineluttabilità della malattia mentale. Un Maestro, appunto, che anche dentro Psichiatria Democratica ha fatto crescere generazioni di dirigenti dai quali pretendeva rigore, umiltà, dedizione e, soprattutto lavoro corale. Condivisione. In una dialettica sempre viva e, talvolta, ricca e aspra. Operatori dallo sguardo lungo e sempre disponibili alla verifica delle proprie pratiche, mai slegate dal divenire di nuovi orizzonti teorici, in ciascuna realtà del Paese. Per Agostino Pirella, questa condizione era irrinunciabile per il superamento di tutte le forme di emarginazione.
Uomo, dall’apparente scorza dura,che aveva, nel corso degli anni, stretto profonda amicizia con diversi compagni. E del suo attaccamento a Psichiatria Democratica e del ruolo che lui gli attribuiva, lo avvertimmo tutto anche quando lo incontrammo, non molto tempo fa, a casa sua, a Torino, Luciano Sorrentino ed io. In quella occasione, nonostante le precarie condizioni fisiche, ci chiese notizie dei compagni e del tipo di lavoro che PD faceva nelle Regioni, del nostro impegno per il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e dello stato di salute del movimento. E ci sorrise, ammiccando e ribadendo il ruolo che PD, a suo avviso, doveva mantenere nel Paese, dentro ed oltre lo specifico psichiatrico. Subito dopo la visita, ricordammo (ne riparlammo, a cena, da Luciano) il ruolo centrale che Agostino aveva svolto al Congresso del 2000 quando, con autorevolezza e vigore contrastò e sconfisse, il tentativo di frazionare il movimento. In quella occasione sposò, con convinzione ed entusiasmo,uno dei punti centrali della risoluzione finale dell’Assise: la dissoluzione della psichiatria. Fu quello l’anno della svolta, dove si decise di ampliare l’area di intervento di PD, sia a livello centrale che periferico, immergendoci anche in altre realtà di esclusi ed emarginati. Continuando a sporcarci le mani.
Ciao caro Maestro. Già ci manchi. Un grande abbraccio.
Napoli, 4 novembre 2017
Nel 1979 AGOSTINO PIRELLA fu chiamato in qualità di sovrintendente per organizzare il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici di Torino, perseguendo la strategia del gruppo di Gorizia che era andato a dirigere altri ospedali psichiatrici del centro-nord. Franco Basaglia sarebbe andato al Santa Maria della Pietà se la morte non l’avesse portato via prematuramente.
A Torino e nei quattro manicomi piemontesi ( Alessandria, Racconigi, Novara, Vercelli) non era avvenuto un vero processo di de istituzionalizzazione, bensì un processo di deospedalizzazione che aveva comportato la deportazione di centinaia di pazienti in altre istituzioni. A Collegno, Grugliasco e Savonera languivano ancora 2000 pazienti circa. L’impresa che si accingeva ad affrontare era titanica, non tanto per le ovvie difficoltà legate al lavoro di deistituzionalizzazione ma all’opposizione di quanti medici e infermieri non accettavano il processo di cambiamento, gli uni per questioni di potere gli altri non perdere i vantaggi acquisiti che permetteva di avere un secondo lavoro.
Agostino a fronte di queste difficoltà mise in campo la sua grande esperienza e capacità, maturata nei duri anni a Mantova, Gorizia e Arezzo, per tessere alleanze con il personale disposto a operare per il cambiamento.
Il piano era ambizioso e non privo di pericoli perché i gruppi che vi si opponevano oltre ad avere il sostegno della stampa locale, avevano l’appoggio dei politici dell’opposizione e non solo. La passione, la certezza di essere nel giusto, la capacità di gestire i conflitti costanti, gli consentirono di andare fino in fondo. Bisogna anche aggiungere che oltre al lavoro diretto con i Manicomi di Torino, era necessario dare le linee di superamento dei i restanti quattro manicomi e verificarne costantemente l’andamento, inoltre programmare simultaneamente la costruzione dei servizi territoriali in tutta la Regione.
Grazie alla sua capacità di negoziazione con tutti gli attori in campo e l’incessante lavoro dei suoi collaboratori, la Regione Piemonte già nel 1980 disponeva di una rete di servizi territoriali diffusa su tutto il territorio. Una rete da perfezionare sia in termini organizzativi che culturali, comunque una formidabile base di partenza.
Negli ultimi anni della sua vita parlavamo spesso di quel periodo riconoscendo che, nonostante i poteri politici, le lobby professionali ed economiche (il privato imprenditoriale ), non si è più tornati indietro. Grazie Agostino
Luciano Sorrentino
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Ero ancora studentessa di Medicina quando ho avuto il mio primo impatto con il “manicomio aperto” da Agostino Pirella. Non nascondo che ero titubante e un po’ timorosa incontrando alcuni degenti e visitando i reparti . Non avevo mai visto l’ospedale psichiatrico dall’interno, oltre le siepi e gli alberi del grande viale d’ingresso. Successivamente negli anni ho partecipato a qualche assemblea generale, quello strumento terapeutico iniziato ad Arezzo proprio da Pirella e che tante critiche aveva suscitato nell’opinione pubblica. E lui, il Direttore, lo vedevi partecipare non da protagonista ma ascoltare con una grande autorevolezza che incuteva rispetto e ,perché no, ammirazione.
Quell’esperienza ha cambiato la psichiatria, la vita concreta di tante e tanti (che hanno nome e cognome), ma ha cambiato anche noi medici, allora giovani, nell’approccio alla sofferenza e alla cura delle persone malate, indipendentemente dal tipo di patologia di cui erano affette. Ci ha insegnato la presa in carico, il dialogo e l’ascolto reciproci fra medico e paziente, ma ci ha insegnato anche a riconoscere e curare malattie prima mai viste come il delirium tremens degli alcolisti. Da allora infatti, invece di internarli in manicomio come accadeva prima e dove spesso morivano, venivano ricoverati nei reparti di degenza normali dell’ospedale generale. Dal 1977 in poi , almeno nella mia esperienza al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Arezzo, i malati psichiatrici, nei loro eventuali episodi di acuzie, venivano gestiti da noi medici di guardia insieme agli operatori del Servizio di Igiene Mentale che nel frattempo era nato. Sì, qualche scompiglio si creava, ma in fondo si riusciva a trattarli e così a conoscere la realtà e la malattia.
Sono grata dunque ad Agostino Pirella , che ho personalmente conosciuto ed ammirato per la levatura scientifica e culturale, per questa bella pagina di democrazia e civiltà che ha fatto scrivere alla città ponendola all’attenzione nazionale e internazionale. Gli sono grata anche per lo stile di lavoro medico che ci ha insegnato. Credo che onorarne la memoria sia raccoglierne l’eredità per insegnarla ai giovani medici: credetemi, ce n’è ancora molto bisogno…
Monica Bettoni
________La scomparsa di Agostino Pirella rappresenta la perdita di un maestro per una generazione di operatori che, negli anni ‘70, seguendo i cosiddetti Goriziani, si accingevano ad una impresa apparentemente folle e necessaria: abolire il manicomio, creando alternative per aiutare concretamente le persone, anziché reprimerle.
Posso indicare con precisione il mio primo incontro significativo con Agostino. Era il 21 novembre 1972. Il giorno prima, sette di noi, Casagrande, Pastore, Venturini, Croce, Goldschmidt, Piccione ed io, la cosiddetta “Equipe Casagrande”, aveva lasciato per sempre l’ospedale psichiatrico di Gorizia, dando le dimissioni, contro un’amministrazione provinciale cieca e sorda, inconsapevole del tesoro che aveva in mano: l’esperienza di Gorizia, iniziata sotto la direzione di Basaglia, proseguita successivamente con Pirella e Casagrande. Il giorno dopo le dimissioni, i sette dimissionari si incontrarono,
nell’ospedale psichiatrico di Trieste con i loro predecessori Goriziani: Basaglia, Slavic e, appunto, Pirella. Fui molto colpito, fra l’altro dalla totale consonanza dei tre capi storici del movimento sulla assoluta, inderogabile necessità di “far proseguire Gorizia fuori Gorizia, intendendo con questo che i principi (la chiamavamo “la linea”) ed anche le modalità di intervento non dovevano essere traditi. Proprio per questo i tre leader storici, direttori di ospedali si impegnarono a fare il possibile per fare assumere i sette dimissionari presso le loro strutture(Basaglia a Trieste, Pirella ad Arezzo, Slavic a Ferrara)
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Avevo conosciuto precedentemente Agostino in situazioni più pubbliche e quindi fu la prima volta che venni a conoscenza concretamente del suo rigore politico. Uso con difficoltà questo termine perché “rigore politico” è un termine che esprime freddezza di sentimenti, mentre lui era caldo ed affettuoso quando si parlava dei degenti (anche se era partito da Gorizia da oltre un anno parlava dei singoli ricoverati come se fosse ancora il loro curante). E chiesi di lavorare con lui. Ad Arezzo ebbi la possibilità, anzi, la fort
una di conoscerlo più approfonditamente. Seppure fossi sempre affascinato dal Pirella delle conferenze e dei congressi (era un oratore perfetto; ogni sua parola era la più giusta nel contesto: un vero signore della parola che fu malignamente colpito dal male proprio in quella che era la sua funzione più valente), mi piace di più ricordare il Pirella dell’assemblea generale dei ricoverati e, soprattutto, quello della riunione che si svolgeva ogni mattina, all’inizio della giornata lavorativa alla presenza di medici, assistenti sociali ed infermieri, nella quale venivano descritte le ultime ventiquattro ore di quanto accaduto nei reparti.
Agostino voleva sapere tutto quello che succedeva ai ricoverati, spesso criticava e sopratutto...ci faceva scuola. Quelle riunioni mi hanno formato come psichiatra democratico. Sono passati quarantacinque anni, ma sono consapevole di agire tuttora, non solo come psichiatra, ma come persona, secondo i principi che lui ha fatto emergere dalle storie dei ricoverati, dalle loro e dalle mie, dalle nostre (intese come equipe), interazioni con loro. Così ci ha insegnato tanto, sempre partendo dalla concreta storia del paziente. Sono tuttora stupefatto ed infastidito dal vedere che gli interventi che ci ha insegnato Agostino sono stati cristallizzati in tecniche di successo; alludo, per esempio, all' ”open dialogue” finlandese, alla psicoeducazione, alla prevenzione della crisi ed a tante altre tecniche che in questi anni sono andate per la maggiore. In quegli anni i nostri interventisi spostarono progressivamente dall'ospedale alla comunità.
Giorno per giorno scoprivamo, inventavamo un nuovo modo di intervenire sul disagio psicosociale ed Agostino era sempre lì aguidarci, ad evitare sbandamenti, slittamenti dalla “linea”.
Ricordo anche il disorientamento che ci colse alla notizia della partenza di Agostino per Torino. Ma come? Proprio mentre stavamo inventando insieme il modo migliore possibile di applicazione della legge 180, ci mollava e dovevamo fare senza di lui? Comprendemmo l'importanza politica della corretta applicazione della legge nelle grandi città e non solamente nelle città di dimensioni medie come Arezzo, Trieste, Ferrara e Perugia e, con l'aiuto di Vieri Marzi, andammo avanti, ma sentimmo profondamente la sua mancanza. Negli anni successivi i contatti con lui furono molti e frequenti, ma mi piace ricordarne due: il primo quando, nel 2009 ricevette la cittadinanza onoraria di Arezzo ed il secondo quando, essendo lui già severamente malato, nel 2011 lo andai a trovare a casa. Era assistito con amore e dedizione dalla dolcissima Giusi. Anche se Agostino faticava a parlare, fu un incontro preziosissimo per me, perchè finalmente, dopo quaranta anni riuscii a fargli capire che, al di là della enorme stima e riconoscenza, soprattutto, gli volevo bene. Lui lo capì e ci lasciammo con profondo affetto.
Paolo Serra