45 anni della legge 180

La legge 180 ha 45 anni.

Non è un anniversario qualsiasi questo dei 45 anni dall’approvazione della legge 180. Oggi non è concesso far ricorso a quel tanto di retorica che accompagna sempre le celebrazioni: la recente morte della dottoressa Barbara Capovani a Pisa e il clima diffuso di allarme che ne è derivato stanno dando uno impulso a tutti coloro che auspicano una revisione legislativa. È possibile che si crei una saldatura tra una psichiatria istituzionale e accademica di stampo medico e organicista e alcuni dei partiti che compongono l’attuale coalizione di governo, che del tema della sicurezza hanno da sempre fatto il loro cavallo di battaglia: l’equazione follia-violenza ripropone, alla ricerca di consensi e conferme, soluzioni reclusive, repressive, pretestuosamente preventive.

Con buona pace delle evidenze, per altri versi citate e invocate. Non tutta la psichiatria è su queste posizioni così schierate ma la confusione è grande. Il tema su cui tutti concordano è quello delle risorse umane, dell’impoverimento numerico che ha trasformato le reti territoriali in scarni avamposti in cui pochi operatori in affanno si trovano a contrastare una pressione della domanda che è diventata ingestibile. E, come sappiamo, la domanda non è solo di trattamento ma anche di contenimento sociale, di controllo, di segregazione e proviene da istituzioni locali e statali, organi di polizia, magistratura. Bene ha detto chi ha identificato in questa dimensione sociale, ovvero non medica, tuttalpiù sanitaria, il terreno su cui è indispensabile intervenire. Non per rivedere una legge che nulla dice direttamente a proposito degli autori di reato con problematiche psichiatriche, palesi o occulte, ma per trovare soluzioni a quel processo avviato con la chiusura degli OPG e impantanatosi nel pasticcio delle REMS con misure di sicurezza preventive, sospese, mancate o mal poste in essere. Psichiatria e Giustizia, dunque. È lì lo snodo che dovranno affrontare gli psichiatri non accecati da un miope riscatto antibasagliano e i magistrati, costretti a un imbarazzante ruolo di smistamento di persone che hanno commesso crimini di varia entità e che, per il solo fatto di avere ricevuto una diagnosi psichiatrica, vagano in una zona grigia in cui né il carcere né i ricoveri in psichiatria appaiono adatti tanto a trattare che a reprimere. Ad essi ovviamente si deve affiancare la politica, quella interessata ad affrontare i problemi e non solo a ricavarne, opportunisticamente, effimeri consensi. D’altra parte è questa la via da sempre battuta e concretamente sostenuta da Psichiatria Democratica, valga su tutti la promozione dei Protocolli Operativi per l’attuazione della Misure di Sicurezza che, pur se licenziati dal CSM, se non accompagnati da un processo di formazione, messa alla prova, accumulo e confronto di esperienze e verifica nell’approccio ai singoli casi, non potrà mai produrre nessuno dei risultati sperati. Sopra tutto poi l’urgenza di rivedere per legge gli articoli 88 e 89 del Codice Penale e affrontare finalmente la questione dell’imputabilità. Come si vede, la psichiatria o è sociale o non è, come andiamo sostenendo non da ieri e non solo noi.

Per coloro che sembrano appassionati dall’idea di riformare la riforma del 1978 a causa di nuove patologie che si sarebbero palesate negli ultimi decenni proporrei di mettere al centro un quesito cruciale: i Dipartimenti di Salute Mentale sono in grado di CURARE? Di mettere al centro della loro azione la sofferenza umana che ha cambiato linguaggi e contesti di espressione ma che non è mutata più di tanto? Hanno cioè consapevolezza che la “cura” in salute mentale è il risultato di azioni complesse, un “bene comune”, esito di processi che risultano nel “prendersi cura” che non può esaurirsi in atti di somministrazione di farmaci o di psicoterapie, figuriamoci poi nell’assicurare un posto letto di comunità o di ospedale a cui, nel caso, tenere legata una persona? Curare vuol dire sapere usare i farmaci in modo oculato e sapiente, tenendo conto del bilanciamento tra effetti desiderati e indesiderati e dell’esperienza di chi quei farmaci assume. Significa avere fiducia nella parola di chi soffre, costruire relazioni improntate al rispetto perché solo attraverso quello possono agire gli atti terapeutici messi in atto. Vuol dire, ancora, contrastare quelle relazioni che trasformano una persona in un oggetto, dal livello sociale del riconoscimento dei suoi diritti a quello relazionale delle fragilità identitarie che si inseriscono nelle storie familiari e affiorano nelle pieghe oscure della mente individuale. Vuol dire negoziare e non imporre, trovare vie mediane per sollevare chi soffre dalla chiusura in se stesso, principale sintomo di sofferenza mentale. Ma tutto questo non basta né può essere competenza di medici, psicologi e infermieri. Altre figure professionali, altri specialismi, altri soggetti del sociale sono in causa. È necessario assicurare e supportare un abitare degno, un lavoro vero e decoroso, fonte di sostegno non solo materiale per tutti e non solo per i pazienti; valorizzare le competenze e non concentrarsi sulle defettualità; avere presa su tutte quelle determinanti sociali dell’esistenza che in apparenza non hanno a che fare con la salute ma che invece la condizionano e determinano; avere sempre presenti i contesti, le comunità come risorsa cruciale; supportare la socialità, lo scambio relazionale, materiale e simbolico. Per far questo sono necessarie politiche sanitarie e socio-asssitenziali a cui amministratori e decisori istituzionali e politici non possono sottrarsi se non per un’ipocrita delega ad operatori sempre più soli anch’essi.

Non sono questioni da poco perché chiamano in causa anche chi e come insegnare a curare.

In un’epoca in cui farsi carico, dubitare, prendersi dei rischi, criticare, sono verbi messi al bando, la trasmissione di un’eredità fatta di pratiche e teorie della cura derivate da quella legge approvata il 13 maggio del 1978 è più che mai viva e necessaria.

Antonello D’Elia