IL SERVIZIO PSICHIATRICO TERRITORIALE: MUTAMENTO ISTITUZIONALE E NUOVA OPERATIVITA’

 

 Le tesi proposte nello scritto che segue scaturiscono soprattutto da una sperimentazione sul campo: si tratta del tentativo, compiuto da chi scrive, di trasformare un servizio prevalentemente clinico, in un servizio etico.  L’esperimento, oltre ai documentati e riconosciuti risultati ottenuti, in termini di riduzione dei ricoveri, dei trattamenti in SPDC, di restituzione del diritto alla casa e al lavoro per un numero significativo di pazienti ,altrimenti condannati alla psichiatrizzazione addizionale, ha compreso una sistematizzazione, provvisoria e locale, delle pratiche di inclusione, che ritengo possa avere una qualche utilità come indicazione di metodo e come invenzione di prassi, mirate alla soluzione del problema della marginalità, partendo dalle condizioni concrete e dalle connotazioni che tale problema ha assunto localmente

 

Raffaele GALLUCCIO- Psichiatra

Servizio di Salute Mentale di Castelnovo nè Monti (Reggio-Emilia)

(Rivista Sperimentale di  Psichiatria - n. 1 -Anno 2011, Vol. CXXXV

 

IL SERVIZIO PSICHIATRICO TERRITORIALE: MUTAMENTO ISTITUZIONALE E NUOVA OPERATIVITA’

 

                                                                  PREMESSA

I Servizi Psichiatrici istituiti subito dopo la promulgazione della L. 180 assunsero i connotati di Servizi eclettici: servizi che, come chimere, combinavano in “collage” riferimenti differenti ed eterogenei. Più precisamente, in tali servizi l’operatività aveva i suoi rimandi teorico-operazionali nei modelli paradigmatici prevalenti in quegli anni, che erano diversi e contraddittori e che erano nati fuori dai contesti della lotta anti-istituionale: lo studio privato del clinico, il lettino dello psicoanalista, lo specchio bidirezionale del terapista relazionale, ecc. Il motivo principale per cui nei primi servizi si realizzò tale apposizione di modelli eterogenei e tale eterotopia, sta soprattutto nel fatto che il processo riformatore non fu mai pienamente e consapevolmente assunto, dalla gran parte degli operatori, come  atto di cura, gravido di implicazioni teoriche, da disvelare ed  elaborare, alle quali riferire  formazione e operatività; in altre parole, la fondazione dei servizi territoriali non si compì, oltre che come atto istituzioanle, anche come fase iniziale di una  ricerca. Ne conseguì, fra l’altro, una schizofrenia formativa, che persiste tuttora, per cui gli psichiatri si formavano nelle scuole di specializzazione universitarie, sulle tesi della vecchia psichiatria accademica di stampo organicista e apprendevano la psicoterapia, pagando uno dei tanti training privati, ispirati ai modelli cui si è accennato in precedenza.

Gli interventi psicoterapici, che venivano praticati nei Servizi eclettici, erano confusi, segnati dalla competizione tra professionisti, che si riferivano a modelli diversi e dalla trasposizione in un contesto, quello del Servizio pubblico, di fatto inagibile, sia per il tipo di utenza che vi aveva accesso, sia per la non riproducibilità dei setting previsti per l’applicazione di tali modelli.

La pratica sociale si declinava in svariate operazioni di apparente inclusione ed era ispirata dalla adesione, ideologica ed axiologica, al movimento nato con la riforma.

Nel complesso, le pratiche del Servizio eclettico erano contraddittorie e deboli perché prive di espliciti e coerenti fondamenti teorici. Se non si fosse posto rimedio a queste carenze, tali pratiche rimanevano esposte, nel lungo periodo, alla revisione del processo di deistituzionalizzazione e alla restaurazione, in forma aggiornata, della psichiatria intramuraria, con il prevalere della funzione di controllo che la caratterizza.

 

I Servizi eclettici si sono trasformati, nel corso degli anni, secondo due direttrici completamente diverse, così che, attualmente, possono essere descritti due tipi ideali di Servizio di Salute Mentale: il Servizio di tipo clinico, o ermeneutico ed il Servizio di tipo etico¹, o dialettico.

Questi Servizi, apparentemente non si differenziano: ambedue i tipi sono dotati di ambulatori, strutture residenziali, centri diurni, appartamenti, possibilità di erogare sussidi e borse lavoro. Ambedue hanno la stessa dotazione di professioni: medici, educatori, tecnici della riabilitazione psichiatrica, infermieri, assistenti sociali, psicologi, amministrativi. Essi, tuttavia, sono incommensurabili per quanto riguarda la definizione dell’oggetto del proprio agire, per il tipo di relazioni che intercorrono all’interno dell’equipe e con i pazienti, per il tipo di relazioni con il

contesto umano e sociale nel quale agiscono, per il modo in cui declinano le proprie pratiche e per la concezione implicita della cura che ispira ognuno di essi.

 

¹Ad evitare confusioni, si fa presente che <<etico>> viene qui usato in contrapposizione a <<tecnico>> e non come sinonimo di <<equo>>.

 

 

IL  SERVIZIO  CLINICO O ERMENEUTICO

 

a)                  definizione dell’oggetto

 

Il Servizio clinico definisce come oggetto delle proprie pratiche la malattia mentale, intesa come essenza naturale, che si manifesta attraverso sintomi specifici.

In questo tipo di servizio il concetto di malattia non viene usato come residuo verbale, sorretto da un saggio minimalismo epistemologico, non come uno strumento tra gli altri, ma conformemente ad un atteggiamento sostanzialistico, che comporta la reificazione dello psichico. Non si sospetta minimamente che tale definizione dell’oggetto sia riduzionistica, né si conoscono le ricadute operazionali, operative, relazionali, istituzionali e iatrogene del riduzionismo: semplicemente, si ritiene che l’esistenza di tale oggetto corrisponda ad una verità innegabile. A tale supposizione, consegue la reificazione del dolore psichico.

 

 

 

b)                 caratteri dell’équipe

 

L’èquipe del Servizio clinico è un’équipe piramidale, la cui caratteristica fondamentale èla gerarchizzazione di ruoli e funzioni, rigidamente definite e delimitate: la definizione rigida di ruoli e funzioni è necessaria per il mantenimento della conformazione gerarchica del sistema e per  confermare la definizione dell’oggetto. In altre parole, la rigidità di ruoli e funzioni è necessaria per il mantenimento dell’omeostasi del sistema.

All’apice della piramide c’è il medico; i membri dell’équipe che occupano i livelli inferiori sono, sostanzialmente, controllori ed esecutori delle sue direttive: si tratta di un’organizzazione semplice, vetusta, inefficace e costosa, che garantisce la centralità del medico e il suo potere, attraverso l’attribuzione di valore di verità ai suoi giudizi e alle prassi che ne scaturiscono: il medico è l’unica figura “pensante”: egli è il supposto sapere, anzi, è, certamente, colui che sa. Le interpretazioni del medico vengono assunte dall’èquipe come certezze e tutto ciò che non sia leggibile attraverso lo sguardo medico viene ritenuto di scarsa o nulla importanza e viene, perlopiù, ignorato o forcluso. Si tratta di un’équipe che funziona per automatismi, che ripete, in maniera stereotipata, le medesime operazioni con persone differenti e che, quindi, non assume, come ambito del proprio operare, la diversità ed il divenire: le operazioni di tipo diagnostico e prognostico corrispondono, soprattutto, a previsioni sul passato. In sintesi, l’equipe clinica è inconsapevole dei propri apparati di precomprensione (cfr M. Ferraris) (tali apparati sono esclusivamente di tipo clinico: clinica classica, clinica psicodinamica, psicopatologia fenomenologica, ecc.),  produce e somministra reificazione, prevede il passato.

 

 

 

c)                  Le relazioni.

 

La relazione con il paziente è una relazione di oggettivazione. Come già detto in precedenza, tale tipo di equipe si occupa dell’oggetto malattia e non della persona sofferente, per cu ogni manifestazione di sofferenza, ogni eccesso comportamentale, ogni difformità affettiva, o di pensiero del paziente, viene decontestualizzata e privata di ogni altro senso, che non sia quello di rappresentare il disturbo di natura: tutto è sintomo.

Le relazioni con il contesto umano e sociale, nel quale il Servizio agisce, sono segnate dalla conferma.

Nel “mondo dei normali” l’equipe clinica, mediante l'esercizio del ritualismo medico e  l’ostentazione della propria  gerarchizzazione  intorno al sapere medico, conferma una visione del dolore psichico coartato in malattia mentale, destituisce di senso l’esperienza psicotica, riducendola ad espressione di una disfunzione psichica (esperienza incomprensibile che si esprime attraverso comportamenti imprevedibili, perciò pericolosa) e sancisce una cesura incolmabile tra malattia mentale e disagio psichico normale.

Nel contesto sociale in cui opera, il Servizio clinico si colloca come agente di terapia – controllo.

 

 

d)                 Le pratiche.

 

La pratica fondamentale dell’equipe del Servizio clinico è la somministrazione.

Il Servizio clinico somministra pratiche: somministra farmaci, lavoro, ricoveri, semiresidenza,  abitare “protetto” e somministra, soprattutto, reificazione. Le pratiche del Servizio clinico poggiano su un sistema di giudizi e di proposizioni che funzionano come profezie che si autoavverano e si traducono, fondamentalmente, in attività di segregazione e controllo. La segregazione si realizza mediante l’elaborazione e l’attuazione reiterata di progetti riabilitativi, i quali esitano, per lo più, nel recludere il paziente all’interno di un circuito di relazioni psichiatricamente connotate, che  rinvia senza posa, al paziente stesso e al mondo, il messaggio della sua essenziale ed irrimediabile diversità, della sua insensatezza, della sua minorità umana. Il paziente, così istruito, diviene dipendente da tale circuito relazionale e tale dipendenza conferisce al circuito stesso la qualità di rimedio unico e necessario. In altre parole: il paziente diviene cronico e, quindi, “necessariamente” istituzionalizzato.

 

 

e)                  La concezione implicita della cura

 

L’equipe del Servizio clinico concepisce la cura come pratica medica coincidente con la terapia. Ritiene che la cura debba avere come scopo la (improbabile) eliminazione  dei sintomi e della malattia, mira a riparare una normalità lesa, a conformare i comportamenti, ad estirpare, per il tramite di operazioni mediche, allucinazioni, deliri, ecc. e a convincere il paziente che la propria esperienza di dolore è esperienza di malattia (ripristino della coscienza di malattia). In sintesi, mira alla normalizzazione totale o, almeno parziale, del paziente; se i sintomi non recedono, si aumenta il dosaggio degli interventi medici.

 

 

 

In conclusione: il Servizio clinico corrisponde ad un sistema disciplinare (cfr.Foucault) che ha come scopi il controllo e l’eliminazione di comportamenti ritenuti incomprensibili ed imprevedibili; esso svolge tale compito, indicando tali comportamenti come sintomi di malattia mentale e trattandoli con le pratiche tipiche della medicalità. La negazione di tutte le dimensioni non medicali della sofferenza induce la psichiatrizzazione addizionale: la sommersione farmacologica, la segregazione mediante il ricorso sistematico al ricovero ed al suo prolungamento sine die (reclusione residenziale), l’ìinvalidazione d’immagine, la negazione di potere contrattuale, l'induzione della dipendenza dai servizi, mediante la somministrazione reiterata di progetti riabilitativi. Tali esiti, inoltre, confermano, presso i normali, il pregiudizio di incomprensibilità ed imprevedibilità della sofferenza mentale e tale conferma amplifica il timore dei normali,  potenziando, così, uno dei fattori decisivi della esclusione dei matti.

Attraverso la definizione del proprio oggetto come malattia, vengono distribuiti i poteri all’interno dell’equipe  e viene sancita la prevalente funzione sociale di controllo da parte del servizio.

Rispetto a tale equipe il potere contrattuale del paziente è pressoché nullo: l’equipe clinica tende a provocare  la sua totale passivizzazione.

Nei casi più estremi, l’equipe è iatrogena, anche perché, applicando estensivamente le categorie della clinica psichiatrica e parlando ogni forma di dolore psichico con il linguaggio psichiatrico, allarga i confini della malattia mentale, per farla coincidere, al limite, con ogni forma di sofferenza psichica e con ogni sorta di eccesso comportamentale, per il cui trattamento, il Servizio clinico si propone, al contempo, come unica agenzia accreditabile (medicalizzazione integrale della sofferenza psichica).

Come ogni sistema disciplinare, il servizio clinico produce scarti(cfr Foucault). Più precisamente, produce due tipi di scarti:

  1. I lungodegenti
  2. I non responders

I lungodegenti e i non responders sono coloro che maggiormente resistono alla clinicizzazione integrale dei propri bisogni e alla pretesa destituzione di senso del proprio dolore; gli scarti  vengono “trattati” cronicizzando la cura, somministrando e risomministrando iterativamente le pratiche della medicalità: controlli clinici, aggiornamenti delle terapie, programmi di riabilitazione, ecc...

 

Il Servizio clinico produce  neomanicomialità, istituendo il manicomio senza muri, ed  è sempre accreditato. L’equipe di tale servizio “delira”, perché crede che la propria concezione della sofferenza, di quella psicotica in particolare e psichica in generale, abbia statuto di verità, conformemente ad una concezione ottocentesca della verità. Tale equipe non ha mai coscienza di malattia.

 

                                      

 

 

 

IL SERVIZIO  ETICO O DIALETTICO

 

Il Servizio di tipo etico ha lo stesso strumentario e la stessa dotazione di  professioni del servizio clinico, ma ne differisce totalmente.

 

a)      Definizione dell’oggetto.

 

Il Servizio etico ha come oggetti del suo agire:

 a) l’angoscia umana, in quelle forma particolare di espressione o di presentazione che è l’esistenza psicotica o folle

 b) la coazione comportamentale

 c)  i disturbi della relazione

Il Servizio etico si occupa del dolore psichico e della follia, della relazione tra follia e normalità e della difficile relazione tra folli e normali.

Rispetto a tali “oggetti” l’operatore del Servizio etico si muove come un ricercatore e, più specificatamente:

a) ricerca senso e  connotazioni ,sia della follia che della normalità.

b) ricerca ed attua prassi contingenti e transitorie che attenuino l’angoscia.

c) ricerca ed attua pratiche che mirino a produrre l’evoluzione della relazione tra folli e normali, verso una connotazione di tipo dialettico.

d) agisce per migliorare la condizione esistentiva degli esclusi.

 

 Il carattere inconcluso ed aperto della definizione dell’oggetto, è il primo fattore di cura realizzato dal Servizio etico.

 

 

 

b)     I caratteri dell’équipe

 

L’équipe del Servizio etico è un équipe a leadership diffusa.

 

In tale équipe la gerarchia è  funzione, non di una presunta detenzione di verità sull’oggetto e sul rimedio, ma della distribuzione delle responsabilità. Tale equipe, pertanto, opera relativizzando attivamente i ruoli, le identità e le professionalità(cfr. Sergio Piro1). Il processo decisionale coinvolge ogni membro dell’equipe, perché non esiste un’ unica visione privilegiata, che meglio definisca problemi, bisogni e possibili risposte: può esistere, piuttosto, una visione ”competente” rispetto al caso contingente, che si caratterizza per le migliori conoscenze rispetto al problema specifico e che prescinde da ruolo e professione. Lo psichiatra ha conoscenze specifiche relativamente alla terapia e alla clinica, ma, certamente, non ha conoscenze particolari riguardo al lavoro, all’abitare, al senso della sofferenza e ai connotati della normalità. In generale, poi, l’équipe del Servizio etico è sempre consapevole che il paziente può essere anche il maggior esperto di tali ambiti, pertanto, non lo esclude mai dalle decisioni. In tale équipe, inoltre, gli aspetti personali delle relazioni vengono vissuti come ineluttabili e contestualizzati (cfr. G. Deleuze), quindi, vengono agiti con maggior consapevolezza e sono meglio controllati (non innocenza, cfr S. Piro.2).

Per tali caratteri, l’équipe del Servizio etico è più soggetta al conflitto e alla necessità di ricomporlo (processo dialettico- esito nella sintesi = rilievo della contraddizione, ricerca e soluzione = apertura di nuova contraddizione); è un tipo di équipe più difficile da condurre, ma molto più efficace, potenzialmente più creativa, certamente meno costosa.

 

 

c)      Le relazioni.

 

l’équipe etica ha rapporto con colui che soffre. Cerca con il paziente un’alleanza che non escluda il conflitto, ma che comporti un confronto ed una dialettica continua, relativa ad ogni decisione da prendere e ad ogni azione da compiere, sia che si tratti di aggiornare le terapie farmacologiche, sia che si tratti di tracciare i confini che entro i quali la relazione deve svolgersi.

La relazione con il paziente è connotata dall’ascolto, dalla ricerca e dall’attribuzione di senso. Le interpretazioni sono vissute come tali e non come verità assolute. Gli atteggiamenti che prevalgono nell’équipe e con il paziente, sono atteggiamenti proposizionali (B. Russel.), che tengono aperta ogni possibilità all’ulteriore irruzione del senso, alla scoperta, al cambiamento e alla sperimentazione.

All’interno della comunità l’équipe opera combattendo il pregiudizio di insensatezza della follia, di incomprensibilità del dolore del folle e di imprevedibilità dei suoi comportamenti.; agisce minutamente, influenzando chi è in relazione col singolo paziente e ostentando (modalità ostensiva,  ricorso alle “azioni parlanti” di Racamier) una modalità relazionale col folle, tanto strutturalmente simile a quella che intercorre tra normali, quanto per questi inattesa e sorprendente.

L’equipe etica agisce anche ad un livello più generale,  promuovendo, nella comunità in cui opera,  una critica del pregiudizio sulla diversità e mostrando la relazione stretta che sussiste tra il dolore del folle e quello del normale: si tratta di esperienze che hanno le medesime determinanti e connotazioni largamente sovrapponibili, differenti sono i rimedi.

In tal modo, l’équipe etica promuove l’evoluzione della relazione tra normali e folli, da relazione negativa e di esclusione, a relazione dialettica di inclusione; evoluzione che avviene principalmente attraverso il cambiamento dei normali (cura della normalità) e che richiede, come passaggio necessario, la critica della normalità ed il disvelamento della sua propria patologia, alla luce del senso della follia (coscienza di malattia dei normali). L’équipe etica, nei confronti dei normali, media, ammortizza, mostra, spiega. In sintesi: scava spazi relazionali e di inclusione dei folli tra i normali.

 

 

 

 

d)     Le pratiche.

 

La pratica fondamentale dell’equipe del Servizio etico è l’istigazione sistematica all’incontro. L’equipe del Servizio etico svolge, come quella del Servizio clinico, pratiche di tipo medico, ma utilizza il concetto di malattia come strumento contingente e parziale, per interventi circoscritti, non privilegiati, che concorrano, al pari di tutti gli altri tipi di interventi, alla risoluzione dell’angoscia, ed assume pienamente il compito di trattare gli aspetti non medicali della sofferenza (pratica sociale).

L’equipe del Servizio etico è consapevole che le proprie attività possono deragliare in pratiche di controllo e che i luoghi del Servizio possono volgersi in spazi di esclusione, pertanto, tali strumenti vengono utilizzati come luoghi parziali e contingenti dell’incontro.

L’equipe del Servizio etico, come quella del servizio clinico, eroga borse lavoro, sussidi, ecc...,ma  non utilizza tali strumenti per la normalizzazione del folle: lavora per l’acquisizione di ulteriori ambiti di incontro e di riappropriazione di diritti di cittadinanza da parte del folle in quanto tale, e considera necessarie, ai fini della cura, le pratiche, sia minute, che generali, volte all’evoluzione della relazione tra folli e normali, che mirino ad influenzare soprattutto i normali.

In sintesi, ai fini dell’inclusione, il Servizio etico attua due tipi di pratiche:

 

  1. PRATICHE DI PRIMO LIVELLO volte alla restituzione dei diritti di cittadinanza e al mantenimento della <<relazione di contiguità>> tra normali e folli:
    • Percorsi per la riacquisizione del diritto al lavoro
    • Abitare assistito: il diritto alla casa.
    • Tempo libero: il diritto alla cura di se.
    • Diritto alla soddisfazione istintuale, emotiva ed affettiva
    • Ecc…

 

  1.  PRATICHE DI SECONDO LIVELLO volte a promuovere la evoluzione della relazione fra normali e folli e a incrinare lo stigma. 

 

a) pratiche volte al disvelamento del senso

·         le attività espressive

·         il restauro del delirio

·         la biografia e donazione di senso alla esperienza psicotica individuale

             b) pratiche volte alla socializzazione del senso

·         la critica della normalità (il manuale dei disturbi della normalità)

·         la ricognizione e socializzazione del senso della follia

·         le pratiche ostensive

 

Le pratiche del primo tipo, senza quelle del secondo, si risolverebbero, inevitabilmente, in controllo e segregazione; ne risulta, quindi, che le pratiche del secondo tipo sono pratiche necessarie e caratterizzano l’operatività del Servizio etico (officina del delirio).

 

 

 

e) La concezione esplicita della cura.

 

La follia è qui concepita come dimensione del senso, ineludibile e fondamentale, e la cura é intesa come rimedio all’angoscia e alla separazione.

La dimensione della cura non è mai individuale: la cura è un processo di cambiamento di folli e normali, che procede dal riconoscimento concreto della sensatezza di entrambe le dimensioni umane. Il riconoscimento è concreto perché è fatto di pratiche, di azioni, di incontri autentici e perchè comporta una trasformazione patica, sociale ed esistentiva dei folli e dei normali(S.Piro3).

La relazione col folle diviene una relazione di cura se e solo se, l’equipe si dispone a viverla semplicemente come relazione tra soggetti, con la possibilità che divenga profonda e significativa, tanto da poter mutare il proprio e l’altrui destino.

Solo tale disposizione verso l’altro, garantisce che il folle sia assunto quale soggetto di relazione, alla pari, nella sua totale alterità. Lo psichiatra che assume tale disposizione verso il folle, ha già mutato il proprio destino, giacchè, così disponendosi, egli diviene altro da sé: concedendo a se stesso e al folle una possibilità inattesa, egli diviene “agente del possibile” (cfr. I. Valent). Solo se si compie questo primo atto di cura, è possibile che la cura continui. E’ l’assenza o la presenza di tale disposizione, che volge pratiche apparentemente simili verso esiti tanto diversi e che rende necessarie le pratiche dell’incontro.

Un’équipe di tipo clinico, caratterizzata da una distribuzione dei poteri di tipo gerarchico, nel segno di una primazia del sapere medico, non ha alcuna possibilità di attuare tale tipo di cura, che è anche l’unica degna di tal nome nella fase attuale; una équipe etica ha una potenzialità trasformazionale maggiore e può produrre esiti altamente significativi.

 

In conclusione: l’équipe etica mira alla soluzione dell’angoscia psicotica, anche mediante l’attuazione della pratica medica, consapevole, però, del carattere strumentale di tale uso e della  insufficienza di tale pratica, giacché sa che la follia è una dimensione umana e relazionale sensata, non riducibile a mera malattia. L’equipe etica ha come scopo l’inclusione dei folli attraverso la restituzione dei diritti di cittadinanza, le pratiche dell’incontro, la ricostruzione di storie e biografie, il disvelameto e la socializzazione del senso della follia; considera pratica necessaria, a tal fine, la critica della normalità, svolta alla luce del senso della follia, la ricerca sulla patologia della normalità, il superamento di ogni presunzione di incommensurabilità tra il dolore del folle e quello del normale.

L’equipe etica mira all’inclusione del folle, promuovendo l’evoluzione della relazione tra folli e normali, verso la forma della relazione dialettica; tale evoluzione si realizza attraverso il mutamento attivo dei normali, dei loro comportamenti verso i folli e delle loro concezioni implicite sulla follia.

L’equipe può procedere su questa strada solo se assume, fino in fondo, la relazione con il folle come relazione intersoggettiva profonda, altamente significativa, cruciale; suscettibile, cioè, di indurre un reciproco mutamento di destino.

 

Il servizio etico, anch’esso accreditato, non produce scarti: l’equipè è consapevole che il delirio è una forma di pensiero tipicamente normale, ha coscienza di malattia e, per questo, si sforza di evitare i crimini dei riduzionismi veteropositivisti.

 

 

                                               

 

 

 L’OFFICINA DEL DELIRIO

 

L’officina del delirio è il progetto di trasformazione di un servizio prevalentemente clinico in servizio etico, che avviene mediante il trattamento sistematico degli aspetti non medicali della sofferenza e, quindi, l’invenzione e l’attuazione sistematica delle buone pratiche. La trasformazione si realizza a livello culturale, organizzativo, dinamico, operativo e telico.

Con la riforma e la promulgazione della legge 180 si è partiti dalla necessità di connettere il mutamento istituzionale, avvenuto col mutamento operazionale, con il cambiamento delle prassi.

La chiusura del manicomio ha mostrato che la sofferenza del folle ha cause soprattutto istituzionali ed ha sancito l’infondatezza della gran parte delle proposizioni teoriche proposte dalle psichiatrie e dalle psicologie in auge, riferendone i discorsi e le descrizioni agli artefatti manicomiali. Di conseguenza, il mutamento delle prassi deve procedere dal riconoscimento attivo delle dimensioni non medicali della sofferenza e si deve realizzare attuando le cosiddette buone pratiche.

“Al di là delle caratterizzazioni ideologiche e delle determinanti storico-culturali, la buona pratica deve essere qualitativamente definita come:

  • Rispetto della libertà dei cittadini, dei sofferenti psichici, degli esclusi, ecc.
  • Ampio arco di attività, volte a ridurre l’afflittività degli interventi, con il rifiuto di tutte le pratiche violente.
  • Invenzione continua della cura come <<legame epocale>>.
  • Relativizzazione dei ruoli, delle identità e delle professionalità.
  • Prevalenza del lavoro di gruppo, di equipe, di nucleo operativo, di collettivo spontaneo, ecc.
  • Spinta verso l’autonomia territoriale degli psichiatrizzati”. (cfr. S. Piro.1).

 

Nell’esperimento condotto da chi scrive, la declinazione delle buone pratiche, nella loro qualità di cura come <<legame epocale>>,  è stata attuata considerando che, oggi, la determinante maggiore della sofferenza dei folli è il perdurare della loro esclusione, sia  socioculturale e quindi relazionale, sia esistentiva, col suo volgersi in sottrazione dei diritti di cittadinanza. Nell’elaborare la cura, quindi, le buone pratiche debbono declinarsi, oggi, come pratiche di inclusione.

 

 

 

Pratiche di inclusione di primo livello

 

Facendo riferimento all’elencazione delle pratiche di inclusione riportato sopra, si considera che, per quanto attiene alle pratiche volte alla restituzione dei diritti di cittadinanza, non v’è molto da descrivere: si tratta di pratiche conosciute e diffuse. Va, tuttavia, precisato che, tali pratiche, si traducono in autentica restituzione dei diritti di cittadinanza, solo quando vengono promosse ed attuate con un’ispirazione di tipo etico ed in una visione estensiva della cura, che si declina come insieme di strategie volte a restituire, a persone che vivono una condizione umana e sociale particolare,  qualcosa a cui tutti abbiamo diritto:

  • La restituzione del diritto alla casa è tale solo se la casa è casa, allocata tra le case degli altri, frequentata dai comuni visitatori delle case e quando è, pienamente, la casa di chi la abita.
  • La restituzione del diritto al lavoro è tale solo quando il lavoro è lavoro, commisurato ai limiti e alle capacità di chi lo svolge;  lavoro adeguatamente retribuito e non strumento, tra gli altri, di trat-tenimento, con lo scopo di tenere colui che soffre all’interno di un circuito infinito di momenti psichiatrici (lavoro come terapia per il recupero di abilità corrose dalla malattia, detto anche riabilitazione).
  • Il tempo libero è tale solo quando è condiviso, al di la di ogni connotazione psichiatrica, o di altro tipo. Bisogna avviare a definitiva rottamazione i programmi di tempo libero per i matti. Per questo abbiamo incoraggiato, organizzato e attuato, tramite i volontari, occasioni di tempo libero per i nostri utenti presso il Centro Sociale “Insieme” di Castelnovo né Monti, frequentato da vecchi partigiani vogliosi di raccontare le loro storie e da giovani che la domenica  vanno a ballare, o da persone che hanno semplicemente voglia di incontrarsi.

 

 

 

 

 

Pratiche di inclusione di secondo livello.

 

Se lo stigma è il principale ostacolo all’inclusione e se tale forma di relazione provoca le maggiori sofferenze agli utenti e alle famiglie, allora le pratiche per attenuare tale danno, diventano pratiche necessarie.

L’attuazione di tali pratiche mira a incrinare il pregiudizio di insensatezza e  di imprevedibilità della follia e a provocare, inoltre, incontri tra folli e normali, imprevisti, insoliti, sorprendenti, in relazione a tali pregiudizi e che abbiano un valore didattico-esperienziale per i noramali. Sono pratiche necessarie per:

 a) abituare i normali ad una forma di relazione con i folli, improntata alla comprensione e alla vicinanza.

b)  istruire i normali rispetto alla propria patologia, diagnosticabile per il tramite delle parole dei folli.

c) apprendere che la patologia dei folli non è di qualità diversa rispetto a quella dei normali.

 

L’illustrazione approfondita di tali pratiche richiede una trattazione specifica che è attualmente in svolgimento.

 

Nella presente trattazione si può riportare una descrizione sintetica, che dia, però, un’idea chiara di ciò che si intende.

Alcune di queste pratiche hanno tuttora un carattere prevalentemente sperimentale, altre sono casi particolari di dinamiche generali tipiche delle relazioni umane, utilizzate consapevolmente, con lo specifico scopo di modificare la particolare relazione tra folli e normali.

 

Le attività espressive

Si intende qui, per attività espressive, l’insieme di tutte quelle attività volte ad indagare ed esplicitare il senso delle espressioni, dei gesti, dei comportamenti (ecc) dei folli. Tali pratiche arricchiscono la relazione tra folli e normali nella sua contrazione a relazione tra curanti e curati (qui la relazione tra curanti e curati prescinde dalle specifiche identità e dai rispettivi ruoli, che in tali dimensioni si relativizzano, indipendentemente da ogni volontà e intenzione), si svolgono come scambi alla pari e, nel loro concreto attuarsi, confermano, presso i normali, la sensatezza della follia. Per espressioni dei folli si intendono discorsi, scritti, produzioni pittoriche o di qualunque altra forma, prodotte dai pz. con l’intenzione di comunicare, o per la voglia di esprimere. Un esempio di tali pratiche è il brogliaccio dell’in-sensato: un diario, con funzione di raccoglitore, apparentemente privo di ordine, di coerenza, di un filo conduttore che riunisca i vari discorsi. Il brogliaccio è stato utilizzato dai pz. e dagli operatori della Struttura Residenziale, quando lo desideravano, per annotare discorsi, dialoghi, espressioni particolari, che mostrassero un senso inatteso. Meglio di ogni descrizione, può servire a mostrare il senso di questa pratica, il dialogo tratto dal brogliaccio e riportato qui di seguito:

 

Paziente

La mia debolezza, la mia sofferenza sta nella parola normale.

La popolazione chiama la sofferenza matto: è il popolo che dice matto con le sue dicerie, con le sue menzogne; a questo punto io non posso entrare in un ufficio perché sono matta, non posso lavorare in Comune perché sono matta, allora perdo tutti i diritti che ho…li perdo per la popolazione. Chi ha incagliato nella terra la parola matto è il diavolo, perché Dio non può creare parole brutte; solo le malattie hanno parole brutte, perché sono del diavolo: lebbra, psoriasi…. Mi dica un po’ lei, cos’è la psiche?

 

Operatore

La psiche è l’anima; la parola matto non significa nulla: la sofferenza della psiche è la sofferenza dell’anima, delle emozioni, che talvolta possono essere ferite, talvolta uccise… tutto qui.

 

Paziente

Lo sa? Da questo momento i nostri cuori si conoscono.

 

Operatore

Luciana, ma le sue emozioni sono vive? Lei, ad esempio, pensa ancora di potersi innamorare?

 

Paziente

Io sono innamorata.

 

Operatore

Bene! Allora le sue emozioni sono vive e… sa, quando ci sono emozioni c’è speranza. Lei in che cosa spera?

 

Paziente

Spero che non si prenda più in considerazione la parola normale; il diavolo quando dice matto, è perché esiste la parola normale ed il diavolo se ne frega dell’anima.

 

Operatore

Senta Luciana: Perché non prova ad accettare la terapia come terapia non per il matto ma per l’anima?

 

 

 

Paziente

Ha! Se è così bene, infatti la terapia serve per l’anima, non per i matti. Mi raccomando, se va a qualche congresso mi chiami, così spieghiamo che la terapia è per l’anima non per i matti.

Adesso le spiego – talento e dramma: le parole matto e normale: questo è il dramma. Vengono le persone a casa mia e mi prelevano per pulire la casa, come una pazzoide: questo è il dramma.

Talento è quello dei politici che non sono onesti, noi paghiamo il talento allo Stato, che ci fa pagare sia il dramma che il talento, perché non c’è chiarezza. Nella parola normale non c’è chiarezza.

In tutto questo, come avrei mai potuto pensare di fare bambini se esiste la colleganea  mortuaria?

 

Operatore

Mi scusi ma non capisco… la colleganea  mortuaria?! Cos’è?

 

 

 

Paziente

E’ che non si crede più alla vita eterna. Sono gli uomini d’Italia che non credono più alla vita eterna. La fede non c’entra.

Piuttosto c’entra il demonio. De vuol dire che qualcuno ha calcolato un suicidio di sé o l’omicidio di qualcuno. De di demonio.

 

Operatore

Lei, pensa  molto al fatto di non avere bambini?

 

Paziente

Sì. Ho sposato un uomo che non mi piaceva, ma dovevo sposarlo, dovevo sposarlo, dovevo sposarlo. Il mio primo amore, Ermanno, l’ha preso un’altra donna; i suoi avevano la colleganea mortuaria.

 

Operatore

Ma perché lei ha sposato un uomo che non le piaceva?

 

Paziente

Era inutile che sposassi un bel ragazzo biondo, che poi mi faceva fare un figlio e dopo si trovava un’altra e mi portava alla morte.

 

Operatore

Lei allora sperava di trovare un uomo senza la colleganea.

 

Paziente

Allora lei mi ha capito? Perché io non sono pazzoide; mi fanno pazzoide; ma cosa dico di pazzoide? Allora, mi dica, ha capito la morte colleganea?

 

Operatore

Sì: è il male dell’umanità che non crede più alla vita eterna e chi predomina è il demonio: c’è nell’umanità chi calcola la morte della gente.

 

Paziente

Perfetto! I nostri cuori si incontrano: lei non ha la colleganea: ha negli occhi la vita eterna. Lei non crede nella pazzia e questo è nei suoi occhi, e sulla mia pelle c’è scritto innocenza. La malattia mentale esiste?...la malattia mentale esiste?

 

 

Operatore

No

 

Paziente

Quindi se sono pazzoide io è pazzoide anche lei?

 

Operatore

 

 

Paziente

E va bene, allora, la chiami come vuole”! Va bene anche malattia mentale.

 

 

Operatore

Luciana, perché non mi parla un po’ della sua giovinezza?

 

Paziente

Non ho vissuto la giovinezza perché ho lavorato troppo a Genova: ho fatto la cameriera, la panettiera, ho anche guidato un furgone…andavo fino in Piemonte. E’ stata, però, una cosa angosciosa, perché mi sentivo posseduta in spirito.

 

Operatore

Mi può spiegare meglio?

 

Paziente

Spirito non come Spirito Santo, ma l’io della tua anima. Se qualcuno ti dichiara pazza e telefona in giro per dire che sei pazza, allora tu metti insieme quattordici pensieri e ti viene quella che in psichiatria, nei giornali, chiamano depressione psichica. E’ l’anima che viene uccisa dai famigliari, da chi è fuori dalla situazione e risolvono dicendo che sei matta; così mi uccidono l’anima e me la fanno perdere.

 

Operatore

Cosa si prova a perdere l’anima? Cosa rimane quando si perde l’anima?

 

Paziente

Si prova angoscia…rimane il tempo, la speranza…aspettare che l’anima ritorni.

C’è un cuore che ci permette di aspettare e di sperare che l’anima ritorni.

 

Operatore

E nel frattempo, mentre si aspetta e si spera senza anima?

 

Paziente

C’è l’angoscia.

Comunque, quando ti fanno perdere l’anima non è per sempre, perché la speranza la fa tornare e quando l’anima ritorna si torna in sé. Le cose che io le dico non gliele dirà nessuno al mondo.

Venga a casa mia a Gova, se non le fanno schifo i gatti, poi ho una brutta casa, non come voi di città.

Intanto mi piacerebbe andare alla Pietra di Bismantova, dove c’è la chiesetta e se c’è un baretto le offro un caffè d’orzo.

 

Operatore

Va bene per venerdì mattina alla Pietra?

 

 

Paziente

 

Oggi è mercoledì…sì venerdì mattina; prenotato.

Quanti anni ha lei?

 

 

 

Operatore

40

 

 

Paziente

Vedrà fra sette, otto anni sarà come me.

 

Operatore

Come?

 

 

Paziente

Eterna.

 

 

 

   Il restauro del delirio.

 

Operazione che consente di aiutare il folle a risistematizzare il delirio, quando tale sistematicità sta svanendo, a causa di una condizione estrema di solitudine o di chiusura, lasciando il posto alla confusione psicotica e all'angoscia di frammentazione. E’ un atto di cura fondamentale, perchè consente al paziente di recuperare il suo mondo, condividendolo con chi lo interroga e lo ascolta e perché, ripristinando il delirio, rende al paziente la possibilità di governare l’angoscia; tale atto, inoltre, restituendo la parola al folle, lo trae dalla solitudine e lo riconsegna alla relazione e all’ascolto. Il restauro del delirio è l’orecchio del curante teso all’ascolto della parola del folle: “se parli ti debbo ascoltare, se ti ascolto non sei più solo” (cfr.R.G.); si attua chiedendo al paziente di spiegare logicamente le proprie proposizioni deliranti e aiutandolo a formularne i nessi. Il restauro del delirio va realizzato da un singolo operatore che abbia una relazione significativa col pz.ed è una operazione che può richiedere mesi di lavoro, perché bisogna cogliere l’occasione di discutere col pz., quando capita e nelle situazioni più informali. Il gruppo curante viene puntualmente aggiornato rispetto al procedere del lavoro, alle tematiche che emergono e ai nessi che vanno organizzando tali tematiche, così che ogni componente del gruppo curante possa riferire altre comunicazioni del pz., spezzoni di discorso incompresi, che prendano senso man mano che il restauro procede.

E' una pratica che a Castelnovo è stata sperimentata più volte: nel caso di un giovane paziente lungodegente il restauro del delirio fu il perno su cui fu possibile elaborare, successivamente, un programma di dimissione, con abitare assistito. L’equipè territoriale riteneva che quel paziente non sarebbe mai stato dimissibile; constatai allora, ancora una volta, che il nichilismo terapeutico è un artefatto istituzionale: non si ha fiducia in altre possibilità di intervento, che non siano quelle tradizionali. In un altro caso, il restauro del delirio consentì di modificare i comportamenti di operatori e forze dell’ordine verso un pz. che subiva numerosi T.S.O. ed egli, per molti anni, non fu  più ricoverato. Nel caso di un’altra pz. difficile, il restauro del delirio consentì di migliorare la relazione e di dare inizio ad un fare assieme, che sembrava impossibile in precedenza.

In altra occasione, il restauro fu attuato attraverso la realizzazione di un murales che è ancora sulla parete del nostro atelier.

 

 

 

La ricostruzione della biografia

E’ una pratica che consente una “ripresa” di individualità ed un guadagno relazionale di grande valore trasformazionale, per utenti ed operatori. Il potenziale di tale pratica è di immediata percezione, qualora si consideri la ricchezza semantica del racconto e la si raffronti alla scheletrica aridità del caso clinico: il racconto è l’altro, il caso clinico è la cosa.

La ricostruzione della biografia consente di comprendere la sofferenza del pz., i suoi deliri, le voci che lo affliggono, alla luce della sua propria storia, delle esperienze che lo hanno segnato, degli incontri che lo hanno cambiato. La raccolta della biografia fonda la relazione col pz. come relazione tra l’èquipe e la persona sofferente; relazione significativa tra persone, intrisa di vicinanza, di momenti patici e di attenzione verso il pz. (cfr E. Borgna). Tale pratica dovrebbe essere  attuata sistematicamente e dovrebbe relegare la riduzione a caso clinico, in forma usata per le comunicazioni di servizio e per la conta dei dati richiesti per i calcoli statistici.

 

 

 

La socializzazione del senso della follia.

 E’ un insieme di operazioni volte ad incrinare il pregiudizio di insensatezza dei normali, che si attua nella forma del racconto da parte dell’esperto (intendendo per esperto colui che ha esperienza del senso della follia per averlo indagato o per averlo espresso: operatore, familiare, paziente, ecc..). A Castelnovo abbiamo svolto per alcuni anni un lavoro con gli studenti del liceo e con le associazioni, sulle espressioni della follia e sul senso. Il gruppo che ha svolto questa pratica era costituito da chi scrive, da un’ infermiera esperta, che è anche la conduttrice del gruppo di uditori di voci, da alcuni familiari di pz., tra i quali anche la presidentessa provinciale dell’Associazione dei familiari (Ass. Sostegno e Zucchero), da alcuni pz., tra i quali la fondatrice dell’ass. “Noi e le voci” (uditori di voci) e la fondatrice dell’Ass. di utenti “L’Orlandofurioso”. Abbiamo concepito e svolto questa pratica come successione di più parti:

 

 

  1. Una prima parte detta “teorico - speculativa”:  si chiede agli studenti che cosa pensano significhi  essere folle e delirare, quindi, si raccolgono le loro risposte; poi si guardano films che raccontano storie di persone che delirano e che mostrano il delirio nel suo accadere; si discute della struttura del delirio, del suo senso specifico: il delirio di quel delirante alla luce della sua storia, il suo senso generale e la sua caratteristica di struttura di pensiero tipica della normalità.  Importanza della biografia e della relazione normali – folli.
  2. Una seconda parte detta “l’incontro”, in cui gli studenti incontrano, in momenti diversi, pazienti, familiari, volontari e operatori, che raccontano della propria esperienza vissuta, delle voci che li affliggono e di come siano riusciti a controllarle, delle difficoltà, della solitudine e di come vivono l’atteggiamento comune dei normali;
  3. la terza parte è detta dell’ “esperienza”: agli studenti vengono riportate storie di  persone che delirano, o che hanno comportamenti bizzarri e ritualismi apparentemente insensati; i ragazzi ricercano e danno senso al delirio, ai gesti e ai comportamenti, alla luce delle biografie e delle dolorose esperienze raccontate. Le storia e i deliri sono stati anche elaborati in testo e  rappresentati in teatro, sempre dagli stessi studenti. Altra esperienza è il lavoro sulle voci: in gruppi di tre si simula il sentire le voci, poi, a caldo, i ragazzi riportano i propri vissuti.
  4. Il delirio nella letteratura; la creatività psicotica nella pittura e nella poesia; la poesia come salvezza dall’angoscia di morte: analisi di alcuni scrittori, poeti, pittori.
  5. Ultima parte: si torna a chiedere ai ragazzi che cosa significa per loro essere folli. Si raccolgono le risposte e poi le si confrontano con le precedenti: le risposte sono ribaltate completamente:
    • Da: una persona che non riesce a controllarsi – A: persone che hanno vissuto o vivono forti traumi o disagio.
    • Da: uno che ha disturbo mentale – A: follia come richiesta di aiuto.
    • Uno che non fa ragionamenti sensati – A: follia e delirio come protezione e salvezza dall’angoscia.
    • Da: uno che agisce senza sapere quello che fa e quello che dice – A: Delirio come forma di comunicazione sensata.
    • Ecc...

 

 

Nella nostra esperienza questa pratica ha manifestato un alto potere trasformazionale, anche perché ha consentito di predisporre e realizzare pienamente l’incontro in un ambito e in un contesto (scuola) che è votato alla conoscenza. Gli studenti hanno mostrano sempre grande interesse per un tema così particolare come il delirio ed hanno scoperto tale condizione con sorpresa e interesse,.

Tale pratica ha una forte connotazione didattica che risulta gradita soprattutto agli insegnanti.

 

La pratica ostensiva. E’ la “presentazione”, consapevole e operativamente mirata ai normali, di una modalità relazionale col folle, strutturalmente simile a quella che intercorre fra di loro. Dev’essere attuata nelle situazioni correnti della vita sociale e, solitamente, sorprende i normali, risultando per essi inattesa, perché impregnati come sono di pregiudizio,  non pensano che si possa stare con i folli, nei modi correnti della quotidianità che gli vengono presentati. Consiste nello stare con l'utente in situazioni di socialità, compiendo azioni parlanti (Racamier); è più efficace quando a svolgerla siano i volontari: essi, infatti, sono la cerniera principale tra il servizio e l’esterno, giacchè conoscono le storie minute dei pazienti e di coloro con cui hanno relazione. Essi sanno quel che si dice dei matti al bar in generale e di chi dice cosa di quel matto, in particolare. I volontari sono normali tra i normali, che stanno con i matti, in modo inusuale per i normali. Tale pratica modifica positivamente la percezione ed il comportamento dei normali verso gli utenti; essa richiede che il volontario, che abbia già sviluppato una relazione di vicinanza con i pz., venga istruito rispetto a tale modalità di comunicazione complessa, sintetica e non verbale.

 

La critica della normalità.

 E’ una pratica ad alto rischio di banalizzazione, che richiederebbe una trattazione a parte, per le sue notevoli e specifiche implicazioni rispetto alla relazione tra normali e folli. Basti qui dire che ogni qualvolta si riscontri in un comportamento,  in una espressione,  o in un’azione del folle, una vicinanza o una diversità positiva rispetto alla normalità, si svolge la critica della normalità mediante il recupero di una connotazione positiva della follia. Tale recupero avviene in genere in forma spontanea, distratta e poco riflessa; si tratta di superare questi limiti e di recepire pienamente il messaggio del folle riguardo alla normalità, di recepirne la sensatezza e il valore. E’ il passaggio più difficile, ma anche quello più necessario, per realizzare una relazione alla pari. La critica della normalità viene svolta, o direttamente dai folli, oppure dagli operatori , volontari, ecc…, quando si parla dei pz., nelle riunioni di equipé,  nelle riunioni dei gruppi curanti, per la revisione dei programmi di cura, negli incontri dei gruppi di automutuoaiuto, negli incontri con gli studenti, ecc….

 

L’esperimento condotto ha compreso il tentativo di realizzare un manuale dei disturbi della normalità, scritto dai folli; tale tentativo è rimasto appena abbozzato. La “Colleganea mortuaria” è il primo disturbo della normalità segnalato e costituisce anche la prima voce di tale manuale. Altri disturbi sono stati indicati, ma non c’è stato tempo per elaborare le relative voci del manuale. Basti qui aggiungere, che l’indagine sui disturbi della normalità condotta dai folli, ha consentito di individuare almeno quattro ambiti di patologia:

  • i disturbi del desiderio e della passione;
  • i disturbi del piacere;
  • i disturbi della relazione;
  • i disturbi della identità;
  • i disturbi del morire.

 

 

Nutro la speranza che si determino condizioni favorevoli alla ripresa del lavoro interrotto e che si riesca a portalo a termine.

 

Riassumendo per concludere: le pratiche di inclusione sono le cosiddette buone pratiche nella loro qualità cronodetica, di legame epocale, o, se si vuole, sono le buone pratiche necessarie oggi per curare i nostri pazienti.. Considerate le caratteristiche dell’”oggetto” cui la cura è rivolta, tali pratiche debbono, necessariamente, mirare agli aspetti non medicali della sofferenza, che sono, al contempo, le cause principali del danno e gli aspetti più trascurati, quelli che meno improntano i Servizi nei loro caratteri organizzativi, di disposizione delle equipe, di cultura, di operazionalità e di operatività.

L’officina del delirio è un tentativo di capovolgere tale assetto, di disporre cioè, il servizio di salute mentale, verso il trattamento sistematico di tali aspetti non medicali, riorganizzandolo e formando l’equipe in coerenza con tale scopo. Pensando ed attuando le prassi di inclusione, l’equipe evolve culturalmente, si forma, diviene e, divenendo, muta il proprio destino e quello dei pazienti. L’insieme di tali mutamenti e la stessa disposizione al mutamento, alla scoperta, alla ricerca e alla invenzione, promuovono l’evoluzione del  Servizio verso una connotazione prevalentemente etica.

 

 

 

 

                                                              RIASSUNTO

 

Nel presente articolo vengono indicati i caratteri e le connotazioni delle due tipologie di Servizi Psichiatrici che l’autore ritiene operanti attualmente in Italia: il Servizio clinico e il Servizio etico. Si ritiene che tali Servizi rappresentino gli esiti della trasformazione dei primi Servizi psichiatrici istituiti con la riforma: i Servizi eclettici, cui pure si accenna all’inizio.

Tali Servizi, che appaiono non differire per la dotazione di specialisti e funzioni, essendo tutti dotati di psichiatri, psicologi, infermieri, …., ecc.., e disponendo entrambi di CSM, Strutture residenziali, Semiresidenze, appartamenti, ecc.., appaiono tuttavia incommensurabili riguardo alla definizione dell’oggetto del proprio agire, per le relazioni che intercorrono tra i membri dell’èquipe e, di conseguenza, con i pazienti, per il tipo di relazioni che istituiscono con il contesto antropico in cui operano, per la concezione implicita della cura e, quindi, per le pratiche che privilegiano, nonchè per i differenti esiti del proprio agire.

Per chiarezza espositiva è stata preferita la descrizione schematica, la quale ha comportato la separazione netta in due tipi “ideali” di Servizio, con caratteri nettamente distinti. In realtà i connotati di una gran parte dei servizi appaiono essere una mescolanza di caratterizzazioni di tipo clinico e di tipo etico, risultando in prevalenze degli uni o degli altri, così da dover parlare di Servizi prevalentemente clinici e di Servizi prevalentemente etici.

L’articolo comprende una sezione in cui vengono brevissimamente descritte alcune delle “pratiche di inclusione” che potrebbero caratterizzare l’operatività di un Servizio etico e che sono servite, tra l’altro, a chi scrive, per tentare di promuovere l’evoluzione di un Servizio, da prevalentemente clinico, a  prevalentemente etico.

 

 

 

                                                           BIBLIOGRAFIA            

 

 

Borgna Eugenio: <<Noi siamo un colloquio>>. Feltrinelli, 1990.

 

Deleuze Gilles, Guattari Fèlix: <<Millepiani>>. Castelvecchi, 1980.

 

 

Ferraris Maurizio: <<Storia dell’ermeneutica>>. Bompiani, 1989.

 

 

Foucault Michel: <<Il potere psichiatrico>>. Feltrinelli, 2004.

 

 

Galluccio Raffaele, in volume collettaneo <<Cura e salvezza>>. Moretti e Vitali, 2000.

 

 

Mancini Antonio: << Il paradosso della cura>>. Idelson-Gnocchi, 2002.

 

 

 

 

(1) Piro Sergio: <<Sulla “sincerità” dell’adesione al Forum>>. Intervento nella seconda Assemblea                                                                                             Nazionale del Forum Salute Mentale (Camaiore di Lucca, 16-17 Dicembre 2004).

                

(2)        “          <<Antropologia trasformazionale>>. Franco Angeli, 1993

 

(3)        “          <<Trattato della Ricerca Diadromico-Trasformazionale>>. La Città del Sole, 2005

 

 

 

 Russell Bertrand: <<Significato e verità>>. Longanesi, 1963.

 

 

Valent Italo: <<Dire di no>> Filosofia Follia Linguaggio. Moretti e Vitali editori, 2007.