due sciagure non giustificano la morte di un uomo

  • Print
Share
Due sciagure non giustificano la morte di un uomo
Antonello d'Elia

cprLa morte del giovane uomo tunisino Abdel Latif riporta drammaticamente l’attenzione su situazioni di violenza e cause di sofferenza psichica e fisica che sempre più di frequente passano inosservate, dati di fatto su cui pare non valga la pena discutere. La prima riguarda le condizioni con cui uomini e donne, e spesso ragazzi e bambini, affrontano un percorso migratorio rischioso, insidioso pieno di pericoli.

Che sia il mare nostrum o i boschi polacchi le migliaia di persone che tentano di varcare la soglia d’Europa incontrano respingimenti, maltrattamenti, violenza inflitta o gratuita che tradisce il rifiuto razzista di riconoscere quali esseri umani coloro le cui esistenze, la cui storia, le cui ragioni sono appiattite nella nuova condizione del migrante. Condizione che, oltre a cancellarli come soggetti di diritto e come appartenenti al consesso sociale, diventa oggetto di accanimento politico, di strumento di lotta fra stati, di aggressione istituzionale e personale. Non è umano viaggiare su imbarcazioni precarie né dormire nei gelidi boschi del nordeuropa, e non è umano, per coloro che a questa prova sopravvivono e riescono in qualche modo a varcare la soglia, essere rinchiusi, concentrati in luoghi di sospensione, di attesa, spazi liminari in cui vengono detenuti senza titolo, ambiguamente trattenuti per un inedito reato, quello di voler vivere, sfuggire alla miseria, alla violenza inflitta da altri esseri umani. Abdul Latif aveva dovuto sopportare un ulteriore tappa del suo percorso sostando per giorni su una nave quarantena, perché la pandemia da COVID19 comporta anche questo, prima di giungere nel CPR di Ponte Galeria. Aveva problemi psichici, si è scritto. Come se, per una sorta di malinteso darwinismo, sopportare promiscuità, maltrattamento, anche il ‘semplice’ abbandono, fosse un requisito necessario per accostarsi al territorio nazionale. Per chi dovesse patire tutto ciò e dar segni di cedimento c’è sempre una diagnosi psichiatrica per confinare una sofferenza umana in una categoria medica che ne distilla il comportamento, ne circoscrive l’indocilità e disattiva la ribellione. Alla violenza del viaggio, a quella della limitazione forzata del CPR si unisce allora quella della psichiatria istituzionale. Si intuisce, leggendo la stampa, che, a morte avvenuta, si tratti ora di rimpallare responsabilità tra chi dice che prima di essere affidato alla psichiatria non era malato, era affabile e sorridente e che solo un ‘inspiegabile’ circostanza avrebbe scatenato un comportamento meritevole di ricovero, e gli ospedali in cui è giunto. I familiari parlano di una telefonata in cui Abdel dice di percosse, ma ci si può fidare delle famiglie? Il consulente intervenuto al CPR avrebbe concluso che in un luogo di vere cure avrebbe potuto essere appropriatamente trattato. Ricovero e diagnosi si fanno in ospedale, come se solo raffinati specialisti possano esercitare la loro scientifica competenza su un giovane uomo sofferente, di sicuro insofferente per vicende che forse qualcuno avrebbe potuto ascoltare prima che ricoverare, rinchiudere, sedare farmacologicamente e legare a un letto. Si sa, la psichiatria è arte medica che si avvale di raffinatezze scientifiche quali le fasce di contenzione con fermi magnetici per mani e piedi da fissare al bordo del letto, e non si può arrestare il corso della medicina. Da un ospedale a un altro per fare diagnosi psichiatrica: che sofisticata procedura! Fatto sta che il giovane è morto, e come giustamente nota con sarcasmo Manconi su la Repubblica, è morto a causa del cuore che si è fermato, come se ci fossero morti con il cuore che batte… Interrogati i medici diranno che non era chiara la diagnosi, che il giovane era violento, aggressivo e per la sua tutela andava messo in sicurezza (è così che si dice, lo sapevate?). Forse diranno che non era prevedibile che i farmaci somministrati possano avere effetti avversi fino all’esito mortale, eppure certe cose ci vengono insegnate, ribadite in ottimi convegni sponsorizzati dalle stesse case farmaceutiche che quei farmaci producono e commercializzano.

Alla prima sciagurata violenza istituzionale di un CPR, snodo di un sistema di accoglienza che non accoglie nessuno, non produce reimpatri, non ascolta nessuno, non tollera comportamenti meno che sottomessi, si è aggiunta quella di un ospedale che non cura e tratta la sofferenza come una trasgressione da punire. E così una giovane vita è finita, in silenzio, in una stanza di un reparto psichiatrico. È bene che il garante si sia interessato di questa vicenda che, purtroppo, ne segue altre, troppe, che vedono protagonisti involontari persone in difficoltà che subiscono inermi i reati contro la persona che un sistema psichiatrico loro infligge e che in queste circostanze muoiono. Ma è bene anche che questa storia non rimanga tra le aule di un tribunale e che si sollevi finalmente il velo su pratiche quotidiane che violano il codice penale, quello deontologico, e la legge morale. E che questo avvenga in nome di una disciplina medica che alla scienza si appella richiede una mobilitazione collettiva di coscienze, persone, associazioni. Psichiatria Democratica, che è sempre stata in prima linea contro la contenzione e la deriva istituzionale della psichiatria, farà come sempre la sua parte.

Antonello d’Elia

Presidente di Psichiatria Democratica