Morire per strada e nelle carceri

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La Repubblica (ed. Napoli, pag. VIII) , martedì 3 dicembre 2013-12-03

Emilio Lupo, Segretario Nazionale di Psichiatria Democratica

Salvatore di Fede, Resp. Naz. Organizzazione di Psichiatria Democratica

Dobbiamo scrivere.

Vogliamo scrivere.

Per Samuel e Federico.

Contro tutte le ingiustizie cui assistiamo, quasi sempre da spettatori stanchi, con la barba incolta e lo sguardo perso. Annoiati.

Dobbiamo scrivere e vogliamo farlo pur essendo ben coscienti di rasentare la ritualità. Una tragica ripetitività che si perde via via in analisi melliflua della cronaca  e che, raramente, diventa concreto riscatto, messa in campo di risorse. Risposta.

Da soli… Uno in strada, l’altro in carcere.

Ed è su questi liminari che il Paese ha, ancora una volta, mostrato tutta la sua incapacità a comunicare con quanti vi sopravvivono in condizioni di estrema difficoltà.

Due storie assai diverse tra loro: il primo per strada a fare i conti con la propria specie, con la quale si erano interrotti i nessi, i legami… non sappiamo come, non sappiamo quando. E nonostante gli sforzi prodotti da quanti, ogni giorno, si  provano a lenire il  dolore di quelli come Samuel.

Il secondo in carcere o meglio da un carcere all’altro, a fare i conti con lo Stato, in ragione di reati commessi per fare fronte al suo bisogno di stupefacenti. E’ stupefacente, invece, morire a trentadue anni, così come abbiamo lettodi Federico e come e perchè, lo diranno le inchieste aperte che, vogliamo augurarci, faranno chiarezza presto.Due storie non solo vicine temporalmente, bensì due storie parallele, che urlano la propria disperazione… Ma sono grida soffocate, quasi strozzate perché non diano fastidio.

Davanti a queste morti noi tutti ci indigniamo, dibattiamo, proponiamo. Ma forse per ore, o solo giorni, al massimo per qualche settimana.

E nel silenzio che segue inevitabilmente ricomincia la conta. Un conteggio macabro, monotono, dove il dopo è simile al prima.

Dobbiamo scrivere e vogliamo scriverne perché è necessario vivere fino in fondo la contraddizione di persone che pur essendo annoverate tra coloro che si impegnano sul  “fare” - sia  verso quanti sono costretti a vivere per strada sia per quelli che sopravvivono stipati in carceri malsane e sovraffollate – producono nel rapporto tempo/risultato ben miseri esiti. Questo impegno che seppur costante e disinteressato, e produttivo di non pochi progetti per concreti avanzamenti sociali, non è stato del tutto in grado di escluderci, negli ultimi anni,  dal coro dei “penanti”. O non ci assolve del tutto almeno, se stiamo qui a registrare questi tristissimi dejà vu. Quel che più fa riflettere infatti è l’enorme probabilità di risultare funzionali al mantenimento di questo stato di cose, alimentandolo con i nostri sforzi e dunque i nostri insuccessi. Diventando noi stessi istituzioni totali e perciò stesso incapaci, a sostenere alternative credibili e percorribili. Dimostrando l’ineluttabilità delle morti, provando l’irriducibilità delle distanze da quanti ci mostrano crudamente la condizione di umana sofferenza e la difficoltà, “anche per noi”, di mutarne modalità e scaturigini.

 Ma guai a noi se a queste pericolose afasie - intorno alle quali dobbiamo produrre una franca, definitiva  autocritica – non sapremo sostituire  una proposta forte e determinata, che non guardi ad un generico nuovismo (talvolta improbabile nelle sue astratte risposte) ma che sia capace, invece, di guardare indietro, di pescare nella nostra memoria collettiva, quella di una condivisione fatta di mille piccoli atti concreti, di una attenzione costante e tenera. Di una rabbia intensa che conosce la luce ed evita il buio. Quella, in definitiva, che sa che la via delle soluzioni ai problemi non conosce né inutili scorciatoie, né analisi barocche o cervellotiche. Per dirla tutta, la vecchia strada che riusciva a trasformare difficoltà sociali, apparentemente peculiari, in risorsa e patrimonio della comunità: come furono quelle che portarono alla riforma del lavoro, a quella sanitaria e della scuola etc.

 Riusciremo a imporre alla classe politica, che ha promosso nei decenni leggi speciali su l’ordine pubblico, ricostruzione post-terremoto o dei rifiuti, altre e ben diverse leggi speciali che indichino tempi precisi per svuotare le carceri e gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari? Eppure sul sovraffollamento carcerario o su l’orrore degli OPG, ci siamo indignati, abbiamo dibattuto, sono state prodotte circolari e leggi, ma nulla di veramente concreto li ha sfiorati. Saremo in grado di obbligarli ad una legge speciale che inondi il Paese di luoghi di accoglienza, molteplici e diversificati per quanti la crisi del lavoro e sociale oggi costringe a vivere per strada soli, esclusi dalla propria specie?

 Una legge speciale che detti tempi (e sanzioni per gli inadempienti) per fornire risposte ai senza fissa dimora che in numero sempre crescente errano nelle nostre città; agli anziani soli, senza i necessari sostegni economici e senza mani e voci che li confortino. Ma anche alle donne vittime di violenza, agli immigrati, ai profughi, ai bambini abbandonati, ai matti, alle persone  imprigionate nel proprio corpo cui ogni giorno vengono destinate sempre meno risorse, nonostante che le esperienze positive, maturate in tantissime parti del Paese, ne decretino, inequivocabilmente, la bontà, la giustezza come anche il vantaggio economico per l’intera comunità. Costituendo da un lato il contrasto a posizione di monopolio nel settore, e dall’altro la leva e la testimonianza, concreta e diretta, che un altro mondo è possibile.

Non c’è una terza via.

O saremo in grado di fare diventare ciascuno di questi e tutti insieme, proprio come ieri, un problema sociale che deve interessare tutte le parti in campo oppure continueremo, colpevolmente, a riempire caselle di statistiche e fogli di carta stampata. A batterci periodicamente il petto o ad asciugarci qualche lacrima. Nulla di più.

Abbiamo fino ad oggi ottenuto, dicevamo, risultati assai scarsi e comunque insignificanti rispetto all’impegno profuso, perché non siamo riusciti ad affermare (come invece facemmo ieri con lo Statuto dei lavoratori, con la Legge di Riforma sanitaria e di quella psichiatrica o con la scuola dell’obbligo) l’idea che farsi carico delle condizioni dell’altro da noi, costituisce la condizione indispensabile per la crescita effettiva di ciascun cittadino, che le condizioni del singolo sono responsabilità del gruppo, non sempre delegabili a terzi. E che investire sempre di più nel welfare fa la differenza tra uno Stato attendista, burocratizzato e senza anima e uno Stato che è dei suoi cittadini che se ne prendono cura.

 Non sappiamo se, in questo inverno di gelo e di crisi, altri Samuel e Federico torneranno a riempire la cronaca nera motivando alle giaculatorie i “penanti” o se davvero lo sprofondo del nostro comune destino sia l’ultimo limite oltre il quale poter immaginare da subito il cambiamento  collettivo… partendo dagli ultimi tra noi e facendo della soluzione ai loro bisogni, la nostra comune rotta per la ricostruzione sociale e politica del nostro Paese.