Sulla morte della dottoressa Paola Labriola

PSICHIATRIA DEMOCRATICA

Il Segretario Nazionale

Ieri mattina è stata brutalmente uccisa, a Bari, sul suo posto di lavoro, la collega Paola Labriola. Una persona - raccontano le cronache e sottolineano i colleghi baresi con i quali mi sono sentito - disponibile, preparata, solare e, soprattutto, innamorata della propria professione. E’ duro, di certo, scrivere in questi momenti e su queste tragedie, ma è altrettanto crudele tacere. Fare spallucce. Tranciare giudizi. Semplificare. Sì tacere è fare, innanzitutto, un torto alla collega stessa, ai suoi familiari, agli operatori di quel Servizio così duramente colpiti, a quanti, come lei, combattono, ogni giorno, la dura battaglia della presa in carico del disagio mentale - spesso a mani nude -  ovvero senza le risorse necessarie ai bisogni degli utenti. Tacere o trattare quanto accaduto,la tragedia, perché di una tragedia stiamo parlando, sarebbe non assumersi fino in fondo la responsabilità dell’accaduto, perché non si tratta di cronaca nera, di un evento delittuoso. E’ la storia di una donna che portava su di sé anche il peso della gravissima insufficienza di uno stato sociale, di uno stato non in grado di dare risposte adeguate e multiple alle varie forme di bisogno che si registrano sul territorio. Sì, per chiarezza va detto che i Centri di Salute Mentale, in tante realtà, sono individuati e caricati, come la risposta al bisogno, anche quando i bisogni non sono quelli cui una struttura territoriale, in questo caso un SIM, può fare fronte. Ma nonostante tutto, Paola ha accolto la domanda, ha aperto la porta. Sì una porta che non deve essere chiusa. Giammai. Quello che ci sentiamo di dire ora, è che la collettività deve una risposta giusta e rispettosa del sacrificio della dottoressa Labriola. Una risposta che significhi, nei Servizi di Salute Mentale, come altrove, dare sicurezza attraverso la messa a disposizione di risorse adeguate, di personale e di risorse socio-economiche, alle necessità. Non costruire bunker. Solo così, si potranno mettere gli operatori in grado di riorganizzare l’accettazione e il filtro della domanda che cresce, ogni giorno di più, insieme alla crisi. Con essa nascono nuovi tipi di utenti cui occorre dare una risposta che non può assolutamente essere ancora medica, clinica ma sociale. Questa sì in grado di dare,  al posto di surrogati, risposte vere ed Integrate.

Perché la Sanità territoriale è nata su questa scelta e sui percorsi di integrazione con le tante realtà che ci sono nei quartieri delle nostre città,  dimostrando tutta la sua capacità di penetrare la complessità, di affrontare i problemi e risolverli. Tra i mille ammonimenti che ci vengono dalla morte della dottoressa Labriola  vi è quello che proprio nei momenti duri bisogna guardare avanti e non cercare scorciatoie e quelle esemplificazioni, di tipo militaresco, che pure abbiamo avuto modo di registrare nei commenti di questi giorni. Ciò che bisogna fare è dichiarare una lotta senza tregua alla desertificazione dei Servizi di Salute Mentale (come degli altri presidi territoriali) desertificazione portata avanti in nome del risparmio che  - è sotto gli occhi di tutti - ha significato un depauperamento progressivo di personale e di tutte le risorse sociali necessari a dare risposte a quanti vivono in disagio. Mentre, di contro, è urgente, assai, rendere attivo il tourn over del personale, riprendere a costruire reti forti tra le diverse titolarietà pubbliche. Solo così saremo in grado di ridare speranza agli operatori troppo spesso lasciati soli a farsi carico di tutto e di tutti, soltanto così insieme agli utenti ed alle loro famiglie le risorse pubbliche saranno utilizzate per costruire risposte di inclusione sociale (casa, lavoro, socialità), le uniche in grado di opporsi a tentativi di neoistituzionalizzazione. Queste, davvero, le uniche risposte in grado di mantenere aperte le porte.